Diritto

di Paolo Casali

La sentenza 194/2018, della Corte Costituzionale ha posto fine al modello delle tutele crescenti ideato solo tre anni prima nel Jobs Act, incentrato su un meccanismo esclusivamente economico di tutela del lavoratore licenziato in modo illegittimo

Tra i vari princìpi che costituiscono la nostra cultura giuridica vi è anche quello che va sotto la dizione di “rimessione in pristino”, ovvero l’operazione mediante la quale una situazione viene riportata a come era prima di subire una turbativa o un pregiudizio in genere. In materia di risarcimento del danno, ne indica la funzione essenziale di rimettere il patrimonio del danneggiato nella situazione preesistente l’atto illecito.

È senz’altro vero che si tratti di un principio che viene solitamente evocato per quei comportamenti che possano produrre conseguenze su beni immobili (abitazioni, terreni ecc.), ma non sembra arbitrario associare tale tutela a quella che era stata a suo tempo ideata dallo Statuto dei lavoratori in materia di licenziamento illegittimo. In fondo, anche in questo caso ci si trova di fronte ad un atto illecito, compiuto dal datore di lavoro e accertato da un giudice, e che determina un danno economico sul lavoratore-parte lesa; danno che può essere riparato non solo con un semplice indennizzo, ma ben più efficacemente con il ripristino della situazione quo ante.

Sul punto, appare utile riprendere le parole pronunciate dal relatore, senatore Bermani (Gruppo PSI-PSDI unificati), nella seduta n. 224 del 9 dicembre 1969 nell’Aula del Senato: “La reintegrazione di cui al nostro disegno di legge è dunque un argine a favore dei lavoratori contro la discriminazione e il licenziamento di rappresaglia ed è perciò opportuno non praticare, a mio parere, alcuna breccia, sia pur minima, in questo argine. Soltanto mantenendo il provvedimento che stabilisce sempre la reintegrazione del lavoratore (fermo naturalmente il caso che il lavoratore se ne voglia andare sua sponte), si attua un’effettiva tutela del posto di lavoro. E, se si tiene conto che la Costituzione italiana è basata sul lavoro (e impone perciò allo Stato il dovere di difendere nelle contese di lavoro il soggetto più debole, cioè il lavoratore) si deve riconoscere come l’articolo 10 abbia apportato veramente una grande innovazione alla legge sulla giusta causa”.

Tali finalità si inserivano in un complesso di disposizioni che nelle intenzioni del proponente, il Ministro Giacomo Brodolini – prematuramente scomparso e che non vide l’approvazione del suo progetto di legge, che fu portato avanti con altrettanta tenacia dal suo successore Carlo Donat Cattin – si proponeva di “evidenziare, la salvaguardia della libertà e dignità, umana e sociale, del lavoratore, nella sua duplice qualità di cittadino e di parte del rapporto di lavoro, non potrebbe ritenersi compiutamente realizzata da una normativa che si esaurisca nella garanzia di una attiva presenza del sindacato nel luogo di lavoro; né può tacersi che vi sono interessi in ordine ai quali lo Stato non può esimersi dalla emanazione di una disciplina che ponga a disposizione del lavoratore mezzi di tutela diretta, azionabili, cioè, indipendentemente dall’intervento delle associazioni sindacali.” Un disegno di legge che, come si può ancora rilevare dalla sua relazione illustrativa (S. 837 – V Legislatura) si prefigge lo scopo di “contribuire in primo luogo a creare un clima di rispetto della dignità e della libertà umana nei luoghi di lavoro, riconducendo l’esercizio dei poteri direttivo e disciplinare dell’imprenditore nel loro giusto alveo e cioè in una stretta finalizzazione allo svolgimento delle attività produttive.”

Appare opportuno ricordare, inoltre, come per arrivare alla definizione di un impianto di tale portata innovativa, l’allora ministro Brodolini si avvalse di un’apposita Commissione di giuristi e di esperti di relazioni industriali, presieduta da Gino Giugni, che convocò il 5 e 6 marzo 1969 “le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, per sentirle in ordine ad una iniziativa legislativa diretta a porre in essere norme di salvaguardia della libertà, sicurezza e dignità dei lavoratori nei luoghi di lavoro”.

La storia parlamentare più recente ci racconta come si arrivò all’approvazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183, di delega al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, ovvero quella che è giornalisticamente è stata indicata con l’anglicismo di Jobs Act.

Una legge di ampia portata che, attraverso il complesso dei decreti delegati che ne sono derivati, ha introdotto significative innovazioni su tutta una serie di profili di grande impatto per la condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori1.

Sul tema della disciplina delle conseguenze del licenziamento illegittimo, l’intervento riformatore del 2015 portato avanti con il Jobs Act e con le disposizioni di decontribuzione previste per le nuove assunzioni con la legge di bilancio 2015, piuttosto che punire, pare invece, soprattutto voler persuadere i datori di lavoro ad utilizzare quella ora definita come “la forma comune di rapporto di lavoro”, ovvero il lavoro dipendente a tempo indeterminato, con una batteria ragguardevole di incentivi. La strategia di persuasione, infatti, ha agito su due fronti. Uno è stato quello normativo, l’altro quello economico.

C’è da dire che, sul fronte normativo, la soluzione poi adottata non ha avuto un percorso pienamente lineare fin dal suo esordio. Infatti, la formula del cosiddetto contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato a tutele crescenti, e il conseguente ed esplicito superamento della tutela reale della conservazione del posto di lavoro anche in caso di licenziamento illegittimo, non emergeva in maniera univoca nel disegno di legge con il quale fu proposto il Jobs Act (S 1428). Nel quale, all’articolo 4, comma 1, lettera b) si usava la più generica espressione della necessità della redazione di un testo organico di disciplina delle tipologie contrattuali dei rapporti di lavoro, semplificate, che potesse “anche prevedere l’introduzione, eventualmente in via sperimentale, di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti”.

Tale formulazione si tramutò, dopo l’esame del Senato, nell’articolo 1, comma 7, lettera c) del disegno di legge Camera 2660, in: “c) previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio”.

Solo dopo l’esame e le modifiche introdotte dalla Camera dei Deputati il testo assunse la formulazione definitiva di: “c) previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento”.

Non c’è dubbio che il nuovo assetto normativo abbia rappresentato, soprattutto nella sua declinazione operata con l’articolo 3 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, una netta linea di cesura rispetto al quadro delle tutele previste dallo Statuto dei lavoratori, anche nella versione depontenziata operata dalla legge 92/2012.

La ragione principale di tale scelta politica è desumibile dalla relazione illustrativa al citato disegno di legge S 1428, laddove si dichiara la volontà di: “rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché a razionalizzare e semplificare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto produttivo nazionale e internazionale”.

Non corso degli anni che hanno preceduto e accompagnato il varo del nuovo sistema di tutele in caso di licenziamento illegittimo, un altro argomento che ha avuto molta popolarità sulla pubblicistica più affermata è stato quello relativo alle opportunità di crescita dimensionale per le nostre imprese, superando il regime che vedeva una differenziazione tra quelle sotto o sopra la soglia dei 15 dipendenti.

Per quanto riguarda l’effettiva efficacia del nuovo quadro normativo, non molti sono i contributi scientifici che hanno analizzato i dati in maniera quanto più obiettiva e circostanziata. Tra questi si segnala senz’altro, lo studio realizzato per la Banca d’Italia da Paolo Sestito e Eliana Viviano, apparso sul numero 325 di Questioni di Economia e Finanza del marzo 2016, con il titolo Incentivi alle assunzioni e/o riduzione dei costi di licenziamento? Una valutazione dell’impatto delle politiche del mercato del lavoro del 2015. Da tale analisi emergerebbe che, sui dati delle attivazioni di nuovi contratti a tempo indeterminato o di trasformazione dei contratti a tempo determinato, registrati nella regione Veneto nel corso del 2015 – ovvero il primo anno di vigenza del sistema di incentivazione previsto dalla legge di bilancio 2015 e, dal marzo del medesimo anno, del nuovo contratto a tutele crescenti – delle circa 10.000 nuove assunzioni e trasformazioni a tempo indeterminato, circa il 40 per cento di quelle nuove a tempo indeterminato è dovuta all’introduzione dell’incentivo; alla revisione della disciplina sui licenziamenti è imputabile un altro 5 per cento.

Successivamente, nello studio di Andrea Bendinelli Incentivi al lavoro permanente e contratto a tutele crescenti: un approccio controfattuale alla stima dell’impatto sulle assunzioni a tempo determinato nel 2015, pubblicato su Moneta e Credito del marzo 2017, si descrivono tendenze solo parzialmente analoghe. Infatti, se il 2015 si registra come l’anno dell’inversione di tendenza per quanto riguarda i contratti a tempo indeterminato, soprattutto per quanto concerne il tasso di variazione tendenziale delle trasformazioni di contratti a termine in contratti a tempo indeterminato, sulla base della metodologia adottata, emergerebbe che le due richiamate modifiche normative avrebbero contribuito all’incidenza degli avviamenti a tempo indeterminato sul totale dei nuovi contratti di lavoro dipendente nella misura del 7,9 per cento. L’incidenza degli avviamenti con contratto permanente per gli ammissibili allo sgravio contributivo sarebbe passata dal 13,9 per cento del 2014 al 21,2 per cento nel 2015, con un incremento del 7,3 per cento. Indicazioni che sembrerebbero confortanti pur tenendo conto delle stesse riserve metodologiche richiamate dallo stesso autore, quali l’impossibilità di individuare l’incidenza dei contratti attivati dalla pubblica amministrazione o il fatto di aver potuto lavorare solo sui dati 2015. In ogni caso, a parere dell’autore, anche osservando l’andamento delle assunzioni nel corso dei mesi dell’anno preso a riferimento e soprattutto dell’impennata registratasi nell’ultimo mese di vigenza della decontribuzione al 100 per cento, appare più che plausibile affermare che l’incidenza dei contratti a tempo indeterminato nel gruppo degli idonei sia attribuibile “in larga parte agli incentivi economici, anziché dalle modifiche normative previste dal Jobs Act”.

Per quanto concerne, invece, un’analisi dell’impatto delle nuove misure in materia di licenziamento sulla dimensione delle imprese, nell’articolo di Boeri-Garibaldi: lavoce.info del 27 marzo 2018, sulla base dei dati INPS per il triennio 2015-2017, si può apprendere che, prendendo a riferimento tutte le imprese che tra gennaio 2013 e dicembre 2016 sono entrate almeno una volta nel corridoio tra 10 e 20 addetti, ovvero circa 220 mila imprese. … Il numero di quelle che supera la soglia dei 15 addetti è passato da 10mila al mese prima della riforma a circa 12mila al mese nei 15 mesi dopo la sua introduzione, anche se i passaggi di soglia dopo il dicembre 2016 – quando la decontribuzione è stata fortemente ridotta – hanno subito una sensibile decelerazione.

Purtroppo, questi preziosi contributi scientifici, frutto della lodevole iniziativa di singoli ricercatori o di centri studio, non trovano il conforto in un sistematico lavoro di analisi e verifica a supporto dell’attività del legislatore da parte delle strutture pubbliche pure preposte a tale funzione. Al riguardo, l’articolo 1, comma 13, della citata legge 183/2014 ha previsto che “Il monitoraggio permanente degli effetti degli interventi di attuazione della presente legge, con particolare riferimento agli effetti sull’efficienza del mercato del lavoro, sull’occupabilità dei cittadini e sulle modalità di entrata e uscita nell’impiego, anche ai fini dell’adozione dei decreti di cui al primo periodo, è assicurato dal sistema permanente di monitoraggio e valutazione istituito ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 28 giugno 2012, n. 92, che vi provvede con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. In realtà, la formulazione letterale di tale disposizione sembra più preoccupata di non sovrapporre sistemi di controllo e verifica delle disposizioni in oggetto con analoghe strutture già esistenti, richiamando l’esigenza di non gravare ulteriormente le finanze pubbliche, e questo è un obiettivo più condivisibile. Ma, tali prescrizioni sembrano non preludere ad un proficuo e costante confronto e scambio di informazioni tra i diversi livelli istituzionali, in primis tra Governo e Parlamento, sugli effetti di una riforma di tale valenza sociale. La richiamata disposizione della riforma Fornero del 2012 prevedeva la pubblicazione, con cadenza almeno annuale, di rapporti sullo stato di attuazione delle singole misure, sulle conseguenze in termini microeconomici e macroeconomici, nonché sul grado di effettivo conseguimento delle finalità generali prefigurati dai diversi interventi normativi. Nella prassi, tuttavia, si è dato corso una sola volta a tale processo di analisi ex post, con il Quaderno di monitoraggio n. 1/2016. I contratti di lavoro dopo il Jobs Act, il cui contributo sul merito dell’efficacia del nuovo quadro normativo si sostanziava nella stringata constatazione: “La progressione dei primi tre mesi dell’anno, seppur con le dovute cautele interpretative, fa propendere per l’idea che la scelta degli imprenditori di utilizzare massicciamente il contratto di lavoro a tempo indeterminato nel corso del 2015 sia legata certo all’incentivazione economica, ma che anche la maggiore flessibilità dello strumento abbia giocato un ruolo nel guidare le politiche di reclutamento.”

Su questo fronte, la nostra cultura giuridica e politica è ancora piuttosto distante dagli standard dei paesi più avanzati, preferendo soffermarsi sugli aspetti ideologici che animano le diverse posizioni, piuttosto che su un’analisi fattuale e concreta delle soluzioni prospettate e adottate.

Come noto, la sentenza 194/2018, della Corte Costituzionale ha di fatto posto fine al modello delle tutele crescenti ideato solo tre anni prima e incentrato su un meccanismo esclusivamente economico del concetto di tutela del lavoratore vittima di una decisione infondata o illegittima del datore di lavoro, ma che soprattutto aveva immaginato una mera proporzione aritmetica dell’incremento della tutela, in ragione della sola durata temporale del rapporto di lavoro.

Una soluzione che, alla prova dei fatti, ha avuto vita breve, soprattutto se raffrontato con il periodo di vigenza della originaria norma dello Statuto dei lavoratori varata nel 1970, anche nella versione fortemente ridimensionata dalla citata legge Fornero del 2012.

1. D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 22 “Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”
D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 148: “Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”
D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 150: “Disposizioni per il riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”
D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 151: “Disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”
D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23: “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”
D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81: “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”
D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 149: “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”
D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 80: “Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”
D.Lgs. 24 settembre 2016, n. 185: “Disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi 15 giugno 2015, n. 81 e 14 settembre 2015, nn. 148, 149, 150 e 151, a norma dell’articolo 1, comma 13, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”

Paolo Casali

Esperto di tecnica e procedure parlamentari

Share This