Previdenza
di Antonio Pellegrino
Equità non significa che i problemi si devono risolvere tutti in una volta; vuol dire cominciare da chi sta peggio. In questo campo sta peggio chi è in attesa di pensione, avendo perso il lavoro, oppure che alla pensione ci arriverà a 70 anni e oltre in quanto l’importo è troppo basso perché la pensione stessa possa essere liquidata prima
Tutti contenti. Con quota 100 migliaia di persone potranno andare in pensione nei prossimi tre anni. Era scritto nel “contratto di governo”. Una promessa mantenuta. Ma la domanda che pochi si pongono e a cui nessuno risponde è la seguente: di cosa non si è tenuto conto?
Provo a rispondere a questa domanda cominciando da lontano: da quando non c’era la legge Fornero e si poteva andare in pensione senza sottostare agli odiati vincoli.
Sia chiaro, nel 2011 è stato fatto un vero e proprio scippo ai danni di pensionati presenti e futuri, con sacrifici che non si esauriscono con la fine della fase di emergenza, ma durano tutta la vita e pregiudicano l’accesso alla pensione delle generazioni future.
Si pensi al blocco dell’adeguamento all’inflazione delle pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo. L’unica “patrimoniale” applicata in Italia in una fase in cui l’inflazione viaggiava tra il due e il tre per cento.
Oppure all’innalzamento fino a 70 anni del requisito di età per la pensione di vecchiaia che colpisce lavoratori e lavoratrici impiegati in lavori poveri e meno tutelati. In questo contesto i più penalizzati sono quelli che hanno iniziato l’attività dal 1996, sui quali pesano per intero gli effetti di un mercato del lavoro sempre più precarizzato e con bassi salari.
Si pensi ancora al brusco innalzamento dell’età per la pensione di vecchiaia che ha colpito le donne di tutti i settori con conseguenze non ancora del tutto conosciute e pubblicizzate. Per non parlare dell’adeguamento all’incremento della speranza di vita dei requisiti contributivi e di quelli riferiti all’età, un doppio salto che non trova riscontro in altri sistemi europei.
E infine, si pensi all’aumento dell’età oltre i 65 anni per accedere all’assegno sociale, l’unica misura di contrasto alla povertà per le persone anziane esistente in Italia.
Se questo è il quadro dei problemi sui quali intervenire, ciò che manca è un’indicazione di priorità nelle azioni da intraprendere, tanto più necessaria vista l’onerosità degli interventi a fronte di risorse limitate.
Equità non significa che i problemi si devono risolvere tutti in una volta; vuol dire cominciare da chi sta peggio. In questo campo sta peggio chi è in attesa di pensione, avendo perso il lavoro, oppure che alla pensione ci arriverà a 70 anni e oltre in quanto l’importo è troppo basso perché la pensione stessa possa essere liquidata prima.
L’intervento – fatto nel 2011 – sull’età per la pensione di vecchiaia e sui requisiti contributivi per la pensione di anzianità/anticipata è stato pesante ma ha prodotto effetti differenziati per sesso e categoria di pensione.
Fino al 31 dicembre 2011, l’età per la pensione di vecchiaia per i lavoratori dipendenti e autonomi dei settori privati è fissata a 60 anni per le donne e 65 anni per gli uomini; per i lavoratori dei settori pubblici l’età è di 65 anni per uomini e donne. In entrambi i casi per la decorrenza della pensione devono trascorrere 12/18 mesi per la così detta finestra.
Per la pensione di anzianità le vie di accesso erano due: la prima era quella cosiddetta delle quote per cui nel 2011 si poteva andare in pensione con quota 96 data avendo almeno 35 anni di contributi e, come minimo, 60 di età (61+35, 60+36), con una “finestra” di 12/18 mesi; la seconda con 40 anni di contributi senza vincolo di età e una “finestra” di 15/21 mesi.
La legge 214/2011 ha cambiato tutto. Ha incorporato le finestre nell’età legale per la pensione di vecchiaia, ha velocizzato l’equiparazione dell’età per la pensione di vecchiaia tra uomini e donne dei settori privati creando un’evidente ingiustizia. Ha differenziato, inoltre, il requisito contributivo per la pensione di anzianità/anticipata distinguendo, anche in questo caso, tra donne e uomini, ha agganciato i requisiti di età e contributivi all’incremento della speranza di vita.
Tutto questo ha prodotto un profondo mutamento nel numero di pensioni liquidate a partire dal 2012, con rilevanti differenze di genere. Per brevità, l’analisi è stata limitata ai due anni precedenti la legge “Fornero” e al primo e ultimo anno disponibile dopo l’entrata in vigore della stessa legge. La tendenza è abbastanza chiara, al di là di discontinuità dovute alle coorti di nascita e al succedersi delle nuove regole.
Le pensioni di vecchiaia liquidate in favore delle donne sono notevolmente diminuite mentre quelle degli uomini sono rimaste sostanzialmente stabili. Questo si spiega con il fatto che l’età per la pensione di vecchiaia per gli uomini non è cambiata, fatto salvo l’adeguamento alla speranza di vita.
Per le donne, sia per le lavoratrici pubbliche, per le quali l’aumento dell’età si era già verificato prima del 2011, sia per quelle private, la cui età di accesso alla pensione di vecchiaia è cambiata a partire dal 2011. Nel 2018 è andata anche peggio.
Le pensioni di vecchiaia liquidate in favore delle donne sono crollate a 8.792 – circa un terzo di quelle liquidate in favore degli uomini – mentre il numero delle pensioni di anzianità/anticipata, rispetto all’anno precedente, è rimasto pressoché invariato.
Per un esame più completo dal punto di vista dell’equità occorrono ulteriori informazioni circa la condizione lavorativa di chi accede alla pensione. È evidente che non è la stessa cosa scegliere di andare in pensione mentre si ha un lavoro oppure dover attendere la pensione da disoccupato. Su questo si dovrà tornare a riflettere.
Per ora appare evidente che se si fosse ragionato in termini di priorità ed equità le scelte sarebbero state altre.