Previdenza
di Manuela Naldi e Ruben Schiavo
Il sistema viene reso complesso e insicuro. Si dovrebbe tener conto di chi dovrà usufruirne tra trenta o quarant’anni: dunque è necessaria una visione coerente e lungimirante
La pensione con “Quota 100” nasce sotto la spinta di una necessità condivisa dai mondi della politica e del lavoro: rendere l’attuale sistema pensionistico più flessibile. Un sistema flessibile deve rispondere a diverse necessità: permettere al lavoratore con una determinata età o anzianità, di scegliere, anche con incentivi o disincentivi, se continuare a lavorare o percepire una pensione; garantire una tutela a coloro che sono stati espulsi dal mondo del lavoro prima di raggiungere l’età della vecchiaia; prevedere la possibilità di utilizzare la contribuzione già versata per coloro i quali si trovano costretti a lasciare il lavoro per cause familiari, di salute o perché fanno un lavoro gravoso.
L’obiettivo a cui tendere è quello di individuare e introdurre un criterio di flessibilità sistematico e generale che tenga conto delle differenze tra i vari casi e che riporti certezza e fiducia nel nostro sistema pensionistico.
“Quota 100” introduce indubbiamente una maggiore flessibilità nel sistema, ma non è una misura strutturale, bensì sperimentale, destinata agli assicurati che hanno raggiunto o che raggiungeranno, nel triennio 2019-2021, il requisito contributivo minimo di 38 anni, congiuntamente ad un’età anagrafica pari o superiore a 62 anni.
Fornendo un quadro sintetico delle attuali possibilità di pensionamento, vediamo in quale contesto si inserisce la pensione “Quota 100” prevista dall’art. 14 del decreto legge 28 gennaio 2019, n. 4.
Pensione anticipata: sia nel sistema misto che in quello contributivo, la pensione anticipata (anticipata rispetto alla pensione di vecchiaia) si consegue con un’anzianità contributiva di 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. L’aggancio automatico alla speranza di vita, già previsto dal decreto legge 78/2010, tende nel tempo ad annullare questa possibilità di pensionamento, in quanto vi saranno requisiti contributivi sempre più elevati e, contestualmente, generazioni di lavoratori con carriere discontinue e che, sempre più tardi, si inseriranno nel mondo del lavoro. Il blocco della speranza di vita fino al 2026, previsto per questa tipologia di prestazione dall’art. 15 del decreto legge 4/2019, potrebbe essere l’occasione per riconsiderare in maniera organica il meccanismo automatico legato alla speranza di vita che, da un lato, ritarda la data di pensionamento e, dall’altro, incide negativamente nel calcolo della pensione attraverso la revisione dei coefficienti di trasformazione.
Pensione di vecchiaia: per questa prestazione non è stata prevista dal decreto legge 4/2019 la sospensione degli adeguamenti dell’età anagrafica alla speranza di vita e quindi da gennaio 2019 è scattato l’aumento pari a cinque mesi che ha portato l’età pensionabile a 67 anni. Se tale automatismo non verrà modificato con un intervento normativo, l’età della vecchiaia sarà destinata ad aumentare nei prossimi anni, rendendone sempre più difficile l’accesso.
In tema di pensione di vecchiaia, ricordiamo inoltre che l’innalzamento repentino dell’età pensionabile negli anni 2010 e 2011 (soprattutto per le donne) ha creato disuguaglianze fra persone con età contigue e non sono stati previsti sufficienti strumenti di coordinamento e di transizione fra le norme ante e post decreto legge 201/2011.
In questo contesto, in cui non esiste una forma di flessibilità per chi, pur avendo requisiti anagrafici elevati, non ha maturato un’anzianità contributiva consistente, l’unico intervento rilevante è stato l’istituzione dell’Ape sociale, ossia un’indennità che accompagna alla pensione di vecchiaia coloro che hanno minimo 63 anni di età e che presentano condizioni soggettive, quali assistere un familiare con handicap, essere disoccupati o inabili, nonché svolgere un lavoro gravoso. La contribuzione richiesta per questo tipo di indennità varia a seconda della condizione soggettiva e sono previste riduzioni dell’anzianità contributiva per donne con figli. Questa misura sperimentale già prevista fino al 31 dicembre 2018, è stata prorogata anche per il 2019 dal decreto legge 4/2019.
La proroga dell’Ape Sociale ha sicuramente conseguenze positive poiché permette di non lasciare senza tutela alcune categorie di lavoratori; ma oggi occorre riflettere sulla necessità di introdurre una misura strutturale che preveda la possibilità di conseguire una pensione di vecchiaia “anticipata”, attraverso la previsione di requisiti anagrafici ridotti oppure utilizzando la contribuzione figurativa e le maggiorazioni del servizio per valorizzare quelle situazioni soggettive, lavorative o familiari che hanno determinato la discontinuità della carriera.
Quota 100, agganciata ad un sistema di decorrenze posticipate (le cosiddette “finestre”) rappresenta un’alternativa alla pensione anticipata e alla pensione di vecchiaia, ma riguarderà coloro che maturano i requisiti previsti entro il 2021; inoltre l’età anagrafica e i contributi sono requisiti fissi e non mobili e sicuramente questo meccanismo privilegia le carriere lavorative lunghe che presentano carattere di continuità.
Le criticità del decreto: il regime previsto per i dipendenti pubblici
La maggiore problematica interpretativa riguarda la questione del regime differenziato previsto per i lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, che possono conseguire la pensione “Quota 100”, decorsi sei mesi dalla maturazione dei requisiti, in deroga alla norma generale che prevede una finestra pari a tre mesi.
Il decreto al comma 6 art. 14 prevede il regime differenziato così articolato: “Tenuto conto della specificità del rapporto di impiego nella pubblica amministrazione e dell’esigenza di garantire la continuità e il buon andamento dell’azione amministrativa e fermo restando quanto previsto dal comma 7, le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 si applicano ai lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, nel rispetto della seguente disciplina:
a) i dipendenti pubblici che maturano entro la data di entrata in vigore del presente decreto i requisiti previsti dal comma 1, conseguono il diritto alla decorrenza del trattamento pensionistico dal 1° agosto 2019;
b) i dipendenti pubblici che maturano dal giorno successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto i requisiti previsti dal comma 1, conseguono il diritto alla decorrenza del trattamento pensionistico trascorsi sei mesi dalla data di maturazione dei requisiti stessi e comunque non prima della data di cui alla lettera a) del presente comma; […]”.
Questa specificità del rapporto di pubblico impiego altro non si traduce che nel timore di un esodo di massa, con conseguenze negative sul funzionamento delle amministrazioni pubbliche. Questa differenziazione risponde dunque a motivazioni di natura organizzativa.
La prima questione da porsi è: a chi si applica questo trattamento? L’interpretazione sia letterale che sistematica, nonché costituzionalmente orientata, porta a ritenere, visto che si parla di buon andamento della pubblica amministrazione, che questa scansione temporale delle uscite (finestra di sei mesi) valga solo per coloro che sono attualmente lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni (che abbiano cioè un rapporto ancora in essere con la pubblica amministrazione). Non è ipotizzabile l’applicazione di questa disposizione anche a coloro che, già dipendenti di una pubblica amministrazione, siano cessati al momento in cui richiedano di accedere alla pensione “Quota 100”. L’art. 14 del decreto legge 4/2019 al comma 6 prevede una norma che deroga in maniera peggiorativa rispetto alla disciplina generale ex art. 14 decreto legge 4/2019 comma 1, e pertanto è di stretta applicazione e interpretazione. Perciò, coloro che hanno maturato i requisiti richiesti per l’accesso al trattamento pensionistico con quota 100, pur essendo stati pubblici dipendenti, andranno in pensione con le scadenze temporali previste per la generalità dei lavoratori, altrimenti si profilerebbe una disparità di trattamento incostituzionale. Se si ipotizzasse un’interpretazione diversa da quella pocanzi fornita verrebbe meno la ratio della norma stessa: garantire all’amministrazione pubblica un cuscinetto di tempo che permetta un turnover regolato.
Un’ulteriore problematica deriva dall’interpretazione del punto c) dell’art. 14 decreto legge 4/2019 comma 6 che recita: “la domanda di collocamento a riposo deve essere presentata all’amministrazione di appartenenza con un preavviso di sei mesi”.
Si segnala innanzitutto come la terminologia utilizzata sia imprecisa, perché parlare oggi di domanda di collocamento a riposo è non solo inopportuno ma anche fuorviante. Si tratta di un istituto desueto per la maggiore parte dei dipendenti pubblici, il cui rapporto di lavoro è, da tempo, privatizzato.
Al di là della questione terminologica il vero problema è quello di capire a cosa si riferisca il termine preavviso utilizzato dalla norma. Leggendo la disposizione dovremmo ritenere che questo preavviso non possa riferirsi al preavviso lavorativo previsto dall’art. 2118 c.c. e disciplinato dai CCNL, ma che si tratti invece, di una norma che va ad affiancarsi a esso: una comunicazione che permette all’amministrazione di organizzarsi e approntare gli strumenti per la sostituzione del dipendente.
Quindi il preavviso di sei mesi a cui fa riferimento la norma in esame pare debba essere inteso non come preavviso lavorato, ma unicamente come lasso temporale che deve intercorrere tra la comunicazione e la cessazione del rapporto di lavoro, termine quindi che non può considerarsi sospeso nel caso di malattia o ferie del dipendente (che invece, di norma, sospende il preavviso di minor durata contrattualmente previsto).
Le criticità del decreto: compatibilità con i redditi percepiti
La riforma prevede che non sono cumulabili con la pensione “Quota 100” i redditi da lavoro dipendente o autonomo a far data dal primo giorno di decorrenza della pensione e fino alla maturazione dei requisiti per l’accesso alla pensione di vecchiaia. Sono fatti salvi, invece, i redditi da lavoro autonomo occasionale, attualmente, nei limiti complessivi di 5.000 euro lordi annui. Questa fattispecie è una novità nel sistema pensionistico italiano in quanto nessun istituto aveva finora previsto un’incumulabilità dei redditi da lavoro con una pensione anticipata o di vecchiaia. Unica eccezione, anche se si tratta di un’indennità che accompagna alla pensione, è stata l’Ape Sociale. Essa non è compatibile con redditi da lavoro dipendente o da collaborazione coordinata e continuativa che superino nell’anno l’importo di 8.000 euro lordi oppure con quelli derivanti da lavoro autonomo che superino l’importo di 4.800 euro lordi. Si può considerare pertanto l’incumulabilità prevista dal “decretone”, non come una mera condizione per l’accesso a trattamenti assistenziali, bensì come un disincentivo all’utilizzo del sistema “Quota 100” nel rispetto dei limiti di spesa imposti dalla recente Legge di Bilancio.
Ad aggravare la situazione è stato il dubbioso intervento interpretativo della normativa da parte dell’Inps. Il concetto di cumulabilità sta a significare che le due tipologie di reddito non possono essere sommate tuttavia hanno diritto di coesistere. In termini tecnici, in caso di redditi da lavoro inferiori all’importo della pensione “Quota 100”, quest’ultima andrebbe decurtata di pari valore. In caso di redditi superiori all’importo di pensione, la stessa andrebbe sospesa. Tuttavia, la Circolare INPS n. 11 del 29 gennaio 2019, al punto 1.4, specifica che, per tutto il periodo di percezione della pensione, fino al raggiungimento dell’età prevista per quella di vecchiaia, redditi derivanti da qualsiasi attività lavorativa sospendono l’erogazione del trattamento pensionistico fino alla fine dell’anno. Ad esempio, se un soggetto con pensione Quota 100, lavora come dipendente anche una sola giornata nel mese di gennaio, viene sospeso il trattamento pensionistico per l’intero annuo. L’interpretazione da parte dell’Istituto appare pertanto molto più simile al concetto di incompatibilità piuttosto che a quello di incumulabilità come il legislatore ha specificato nell’art. 14 del decreto. Di fatti, la penalità è uguale a quella prevista per i titolari di Ape Sociale tuttavia, a differenza di Quota 100, questi possono percepire compensi fino a 8.000 euro. Inoltre, la norma non parla di semplice incumulabilità bensì specifica che la concessione dell’indennità “è subordinata alla cessazione dell’attività lavorativa”. Dunque, l’interpretazione dell’Istituto, riguardo la sospensione annuale della pensione, non è congrua con il concetto di cumulabilità reso dal legislatore disincentivando così ancor più l’utilizzo del trattamento pensionistico “Quota 100”.
Conclusioni
“Quota 100” va ad aggiungersi ad altri strumenti che permettono di ritirarsi dal lavoro contribuendo così ad arricchire il complesso sistema pensionistico italiano. La flessibilità in uscita, in caso di necessità, è un mezzo che si lega con gli ultimi cambiamenti avvenuti nel mercato del lavoro ed è uno strumento di equità sociale basato sul riconoscimento del fatto che non tutti i lavori sono uguali. L’introduzione di un pensionamento anticipato uguale per tutti, aumenta le possibilità del lavoratore di accedere alla pensione, tuttavia non consente a chi si trova in uno stato di bisogno (disoccupati, portatori di handicap ecc.) di avere una via agevolata all’accesso anticipato alla pensione. È ragionevole affermare, inoltre, che la norma riguardi in particolar modo gli abitanti del Nord e gli uomini (le donne, e i cittadini del Sud, accendono più facilmente alla pensione di vecchiaia a causa di vite contributive di media inferiori). Un altro aspetto da osservare è la sperimentalità triennale della misura. Ad oggi le modalità di accesso “con scadenza” diventano quattro: Quota 100, Ape sociale, Ape volontaria, Opzione Donna.
Il sistema viene reso, così, complesso e insicuro; un tema che comprende altresì chi usufruirà dei benefici fra trenta o quarant’anni, necessita di una visione coerente e lungimirante. È necessario riordinare il vasto sistema pensionistico sotto poche ma definite e strutturate modalità di accesso pensionistico differenziando chi ha un effettivo bisogno – sociale, fisico e/o lavorativo – da chi riesce a proseguire più a lungo la sua vita lavorativa.