Anche se ci sono alcune caratteristiche che le accomunano, talmente tante sono le differenze tra le forme di populismo che mi limiterò, in queste poche righe, ai movimenti “nostrani”: M5S e Lega
Il termine “populismo” spesso si usa in modo dispregiativo per indicare coloro che parlano in modo demagogico, facendo perno sull’irrazionalità, sulla paura, sulla rabbia e sulla delusione; insomma, il “populista” parla alla pancia della gente.
Ma si fa presto a dire populista, perché non è solo pura retorica e neppure una opzione politica riconducibile ad una definizione inequivoca, con proprie caratteristiche e con un proprio complesso valoriale e ideologico. Il populismo può essere di sinistra, ma anche di destra, talvolta equivoco: un po’ di destra e un po’ di sinistra, oppure né l’uno né l’altro. Ritengo soprattutto sbagliato liquidare il populismo come demagogico e in qualche misura pericoloso o, peggio, irrilevante, perché, nel corso degli ultimi centocinquant’anni, in varie parti del mondo, ha incarnato il sentire popolare e ha governato, anche per lunghi periodi, grandi paesi o influito in modo determinante sulle scelte politiche di altri.
La sua origine non è molto lontana, siamo alla metà dell’Ottocento, in Russia, il movimento narodnicestivo, vagamente socialista, che rappresentava le istanze contadine, venne successivamente identificato come il primo movimento populista. A questo fece seguito il populism americano del People’s Party (a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento) e, soprattutto, ancora più tardi – tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta del Novecento – prese vita la stagione aurea del populismo latinoamericano, che annovera come suoi campioni Getulio Vargas in Brasile, Lazaro Cárdenas in Messico, Juan Domingo Perón in Argentina e, ancora, il Mnr (Movimiento Nacionalista Revolucionario) in Bolivia, l’ APRA (Alianza Popular Revolucionaria Americana), prevalentemente in Perù, e AD (Acción Democrática) in Venezuela.
Oscillanti tra il socialismo e innamoramenti del regime e delle realizzazioni fasciste, in particolare Vargas in Brasile e Peron in Argentina, promossero importanti riforme sociali ma anche provvedimenti limitativi delle libertà politiche e l’introduzione della rappresentanza corporativa.
Per finire al nuovo populismo dei nostri giorni, dove questa “parola ambigua”, per dirla con Papa Bergoglio, accomuna il Front National francese (lepenista, ora Rassemblement National) il Fremskridtparti (Partito del Progresso) danese e norvegese, i Republikaner tedeschi, il Bnp (British National Party) e lo Ukip (United Kingdom Independence Party), promotore della Brexit, in Gran Bretagna; la Lega Nord, oggi più semplicemente Lega, ma anche il Movimento 5 stelle in Italia e, in modo più marcatamente di sinistra, Podemos in Spagna.
Cosa hanno in comune e cosa, invece, dividono questi partiti e movimenti populisti? Premetto che il populismo, in termini generali, soffre del “complesso di Cenerentola”. Anche se ci sono alcune caratteristiche che li accomunano, talmente tante sono le differenze tra i populismi che molti possono indossare la scarpetta di cristallo – a chi un po’ più stretta a chi un po’ più larga – ma a nessuno calza a pennello; e il Principe Azzurro (sociologi, filosofi, scienziati della politica e gli stessi politici) vaga ancora con la scarpetta stretta nella mano in cerca della sua Cenerentola. Mi limiterò dunque, in queste poche righe, al populismo “nostrano” prendendo a riferimento la classificazione delle diverse forme del populismo politico elaborata da Margaret Canovan1.
Iniziamo da cosa li accomuna.
Ci sono alcune caratteristiche che, certamente sono condivise dal populismo contemporaneo italiano:
1) mitizzazione e centralità del popolo – portatore di valori “puri”;
2) ostilità/alternatività nei confronti della politica rappresentativa – quella “vecchia politica” a cui gli esponenti di M5S e Lega fanno costante riferimento;
3) ostilità nei confronti della “tecnocrazia” europea, dell’assetto dell’UE e dell’Euro, e assunzione di connotazioni “sovraniste”;
4) identificazione con il leader carismatico;
5) rapporto non mediato con il popolo, attraverso un repertorio retorico teso a rappresentarlo nella sua unità, perciò flessibile, in modo da tenere dentro il tutto e il suo contrario; per definizione “fluttuante”.
Ma, se questi sono i caratteri comuni non sono comunque sufficienti per accomunare M5S e Lega che, di contro, si distinguono su altri terreni. Dalla lettura quotidiana degli eventi politici vengono in chiara luce le contraddizioni della maggioranza attuale, i conflitti politici che prefigurano un percorso non agevole per il governo “gialloverde”. Ma queste sono considerazioni che potranno trovare conferma o meno nel prossimo futuro.
Quello che interessa noi è capire dove i populisti domestici si dividono e quali caratteristiche separano nettamente M5S e Lega anche e soprattutto in termini prospettici.
Torniamo alla tassonomia di Canovan per meglio identificare le differenze tra i due populismi.
Il M5S ha alcune caratteristiche, come la richiesta di maggiore democrazia diretta anche attraverso l’utilizzo delle consultazioni on-line – quel “web-populismo” come forma evoluta del “tele-populismo” di berlusconiana memoria – e il controllo popolare sull’operato dei “portavoce”, l’accentuata contrapposizione alle classi dirigenti “corrotte” e alla “casta” dei politici di professione che si ergono a difesa dello statu quo. Con sempre maggiore evidenza si presenta nel M5S una certa allergia a tutte quelle espressioni democratiche che si frappongono al rapporto diretto con il “popolo”, fino a far affermare a Davide Casaleggio che, grazie alla rete e alle nuove tecnologie digitali, “il superamento della democrazia rappresentativa è inevitabile” e che, perciò, il Parlamento non sarà più necessario. A differenza della Lega il leader riconosciuto (il comico Beppe Grillo) non corrisponde a quello ufficiale, che assume cariche pubbliche e tratta con i leader degli altri partiti e rappresenta il movimento nelle Istituzioni. Questa anomala leadership, solo apparentemente bicefala, consente al M5S di mantenere il suo carattere “protestatario” – anti-establishment e anti-partiti – anche quando ricopre ruoli di governo.
Il M5S può, dunque, nella speciale classificazione di Canovan essere collocato nella “democrazia populista”. Questa sua connotazione gli ha consentito e gli consente tutt’ora di essere trasversale. È, e si è dimostrato anche alle recenti elezioni politiche, il più temibile concorrente del PD.
Diversamente la Lega si caratterizza per posizioni classicamente nazionaliste, xenofobe e tradizionaliste, decisamente reazionaria e portatrice di un nuovo modo di fare politica “facciamo quello che abbiamo detto in campagna elettorale che avremmo fatto”; si contrappone alla “vecchia politica” individuata come progressista e cosmopolita. Con un messaggio sovranista come “prima gli italiani” e “anti-UE” e l’uso spregiudicato della paura dell’altro – “invasore”, “terrorista” -, contrappone i “noi” (italiani) ai “non noi” (immigrati), l’identità all’alterità. Su questa scia è stato ed è attraente per i voti di destra, ovunque siano momentaneamente parcheggiati, ma disponibili a seguire un leader deciso e riconosciuto, muscolare e che si sappia far valere.
La Lega, con le sue peculiari caratteristiche è classificabile nel “populismo reazionario”. La trasversalità della Lega (di Salvini), essendo più decisamente di destra (dichiarata), è in grado di attrarre l’elettorato per lunghi anni devoto alla leadership berlusconiana, ma anche parte dell’elettorato M5S, quello più marcatamente conservatore, arrabbiato con i partiti. Questa tendenza si è confermata nelle ultime elezioni amministrative e si riscontra in quasi tutti ii sondaggi politico-elettorali.
I populismi domestici si sono inseriti in una fase di crisi profonda, dovuta all’incapacità dei partiti di affrontare il superamento delle classiche fratture sociali (le cleavages centro/periferia, città/campagna, Stato/Chiesa e capitale/lavoro) individuandone di nuove, con la difficoltà di comprendere ciò che nel frattempo si muoveva nella società, rimanendo ancorati a quelle fratture classiche del Novencento che si erano andate lentamente dissolvendo. E, soprattutto, a una dilagante corruzione del personale politico e istituzionale, mentre stava emergendo una nuova e radicale frattura nel rapporto cittadini/partiti che vedeva da una parte il “popolo” e dall’altra, a esso contrapposto, l’establishment, fatto di politici, grand commis, affaristi, banche, ma anche Istituzioni europee ecc., tutti, inevitabilmente, parte attiva del “sistema”. Proprio a partire dalla crisi di relazione tra cittadini e partiti e dall’indebolimento del ruolo di quest’ultimi e in presenza di un elettorato decisamente fluttuante, alcuni autori individuano un assetto basato sulla “democrazia del pubblico”, dove la comunicazione diventa centrale, con il rischio/tentativo (presente) di depoliticizzare la democrazia. È in questo ambito che si sviluppa un populismo – soprattutto quello pentastellato – che ha in origine una sola rivendicazione, facilmente comunicabile, racchiusa nello slogan, semplice e diretto, di: “onestà, onestà, onestà”.
Un consiglio (interessato) al Partito Democratico, in quanto unica opposizione al governo “gialloverde” potenzialmente credibile: farebbe bene a smetterla di leccarsi le ferite, di guardarsi dentro come in una sorta di autocoscienza collettiva e di attribuirsi reciprocamente la responsabilità delle ripetute sconfitte in un periodo di tempo breve, per poi aggiungere che la responsabilità è, comunque, condivisa; dovrebbe affrontare, invece, la realtà interpretandola. Tenere in debito conto che, per un periodo di tempo non facilmente determinabile, occorrerà considerare che il confronto sarà, inevitabilmente, con i populismi domestici, con i loro messaggi e la loro retorica, ma anche con i contenuti fluidi del loro significante vuoto.
Non sempre contrapporre la realtà, talvolta triste, alle attese salvifiche sollecita l’attenzione e la considerazione delle persone; basta osservare quanto sta avvenendo in questo primo scorcio della XVIII legislatura, dallo sgretolamento del reddito di cittadinanza all’inconsistenza della flat tax o, più correttamente, dual tax, almeno nella loro immagine elettorale, dal rumoreggiare sovranista, anti-europeista dalle forti connotazioni xenofobe che stanno caratterizzando questo periodo.
In altri tempi questa confusione, questa incoerenza e quest’uso strumentale delle paure e della rabbia avrebbe prodotto una qualche reazione da parte, soprattutto, dell’elettorato moderato e un’inversione di tendenza nelle urne. Oggi, questo, non avviene più, il cosiddetto elettorato moderato tale non è più e, ancora per qualche tempo, non sarà conquistabile alla causa progressista.
Le ultime elezioni amministrative hanno premiato soprattutto la Lega, mentre la più grande forza di opposizione parlamentare ha dovuto segnare il passo, fino a perdere alcune importanti roccaforti comunali che anche nel recente passato hanno rappresentato un punto di forza e un serbatoio di voti importante per il centrosinistra. Anche gli ultimi sondaggi confermano che gli elettori premiano chi rappresenta “attese salvifiche” e preme sull’acceleratore della propaganda.
Mi sembra che oggi, nel PD, si sia in presenza di molte risposte a domande non poste e molte ricette supposte idonee per uscire dall’immobilismo nel quale il Partito sembra imprigionato, alla ricerca affannosa della giusta alternativa. Occorre, invece osservare e analizzare ciò che è al di fuori di “sé”, con l’obiettivo primo di formulare le “domande giuste”, per poi dare le “risposte giuste”.
Diceva Immanuel Kant: “prima di valutare se una risposta è esatta si deve valutare se la domanda è corretta”.
Maurizio Sarti
Lavoro&Welfare Roma. È direttore generale del Fondo Pensione Perseo Sirio