Industria 4.0
di Maurizio Merlo
Un’economia che sprigionasse la sua creatività in chiave liberistica, senza attenzione all’interesse pubblico, alla società, alle condizioni di vita di chi lavora segnerebbe un’evoluzione scientifica e tecnologica in parallelo a un’involuzione sociale
La visita in fabbrica
Erano i primi giorni di dicembre 2014. Avevo avuto incarico da parte di progettisti della Philips di organizzare una tre giorni a Lione finalizzata a promuovere il prodotto della multinazionale nel settore illuminazione pubblica.
I venticinque partecipanti selezionati erano in massima parte rappresentanti di Comuni italiani, a cui si aggiunsero poche unità di imprenditori piemontesi dell’indotto.
Sviluppammo momenti ludici e di dibattito ma il pezzo forte del meeting fu la visita al Centro di produzione Philips in Lione, il più importante d’Europa.
Dedicammo alla visita un’intera giornata, ricevendo molte significative informazioni e preziose suggestioni sulla qualità del prodotto e sul ruolo dell’energia nelle politiche delle Amministrazioni pubbliche. Sullo sfondo il modello di fabbrica, la cosiddetta 4.0.
Un’autentica rivoluzione che, partendo dalle profonde innovazioni della tradizionale fabbrica fordista, estende i suoi effetti al modello d’impresa e di industria, al modello delle politiche pubbliche in economia. Le stesse linee di divisione del ‘900 ne escono modificate e la dialettica capitale/lavoro sposta gran parte della propria rilevanza su un terreno più squisitamente globale, politico e pubblico. Credo, seguendo uno schema di ragionamento marxiano, che questa quarta rivoluzione industriale, sia addirittura destinata a riscrivere il senso stesso del conflitto di classe e la non imprescindibilità del conflitto capitale/lavoro.
La grande sala di produzione era molto estesa e luminosa, ambienti divisi in aree delimitate da pareti basse e mobili. Apparentemente non erano presenti operai ma soltanto distinti signori in camice bianco, tecnici, progettisti, direttori di produzione.
Ogni tanto, si vedevano passare dei carrelli manovrati da personale di servizio, lindamente vestiti d’azzurro, manovali dei servizi di trasporto interni alla fabbrica, qualche magazziniere e addetto all’igiene e alla pulizia dell’ambiente di fabbrica.
I distinti uomini in camice bianco ci raccontavano in un inglese più che discreto le caratteristiche del prodotto e dell’organizzazione della produzione. I macchinari in linea tutti rigorosamente robottizzati; i tecnici svolgevano soltanto un ruolo di coordinamento e controllo delle attività di produzione.
Delle tante aree di attività produttiva poche erano all’opera, molte erano visibilmente ferme. Da qui, a nostra richiesta, la spiegazione: “La produzione non è standard ma molto diversificata in funzione della finalizzazione del singolo prodotto. È il cliente a segnalare con l’ordine le caratteristiche e funzionalità del prodotto e la produzione gira intorno agli ordini. Non esistono pianificazioni di produzione e magazzini sovraffollati di pezzi in attesa di vendita. Si lavora sull’ordine. Ecco perché molte aree di produzione sono ferme, il Centro di produzione (la fabbrica) lavora molto flessibilmente in ragione degli ordini e della multi-diversità dei prodotti”.
Da qui alcune conseguenze assai rilevanti: i contratti di lavoro del personale sono strutturati in modo molto flessibile, i dipendenti sono chiamati a lavorare a ritmi molto elevati per un periodo e a non lavorare per altri; i prodotti seguono una continua elaborazione di strategie finalizzate alle esigenze della domanda, possono quindi uscire dalla produzione rapidamente; le tecnologie e le macchine subiscono modificazioni anche profonde nel breve periodo; in conseguenza progettisti, tecnici e direttori sono scelti in relazione alle nuove strategie di prodotto, di progettazione, di nuove tecnologie, di conseguente adeguamento dell’organizzazione del lavoro; l’organizzazione degli addetti è subordinata a queste modificazioni; la formazione continua e la mobilità continua del personale è dunque una variabile costante della fabbrica 4.0.
Torno a casa con le idee assai chiare su cosa possa significare per una città italiana un investimento smart di illuminazione: la qualità del prodotto Philips; l’importanza strategica per un Comune di abbattere i costi di energia (non solo di illuminazione), migliorando la qualità del servizio; la riduzione della spesa storica a carico dell’Amministrazione comunale e dunque a carico degli utenti; l’opportunità di ordinare prodotti mirati a usi specifici a seconda di una serie di variabili di gestione del servizio (zona della città, qualità dell’illuminazione, quantità del traffico urbano, illuminazione di monumenti e dei parchi, ecc.); la modalità contrattuale: un Project Financing, ad esempio, comporta un incontro virtuoso fra proprietà pubblica delle reti (impianti, coordinamento, controllo) e investimento interamente privato; importanza della unitarietà nel tempo della gestione e manutenzione ordinaria e straordinaria degli impianti a carico della Impresa investitrice, la quale avrà tutto l’interesse a un’ottima manutenzione ordinaria per evitare costi di manutenzione straordinaria, con riflessi diretti sul margine operativo lordo d’impresa e quindi sull’utile; gli impianti di illuminazione potranno infine precostituire l’infrastrutturazione per future scelte di innovazione e di progetti di smart city (dai sistemi wifi alle telecamere di controllo pubblico ecc.).
Ma tutto questo è il merito del meeting, la ragione per cui siamo venuti a Lione; resto tuttavia attratto dall’altro polo di interesse, inaspettato: la rivoluzione industriale 4.0.
La visione del World Economic Forum
Torno a casa con qualcos’altro, con una rivoluzione in testa e devo capire cosa tutto questo possa significare non soltanto in termini di innovazione e di razionalizzazione dei costi pubblici e privati ma in termini di effetti occupazionali, di qualità della formazione nei processi produttivi, di qualità della vita dei produttori e degli utenti dei servizi, i cittadini. Tra tante belle innovazioni, scatta l’allarme “effetti occupazionali”, preoccupazione assai diffusa in tutto l’Occidente. Provo dunque a documentarmi e mi imbatto in un interessante documento del World Economic Forum, conosciuto anche come Forum di Davos. Si tratta di una fondazione senza fini di lucro con sede a Cologny, vicino a Ginevra, in Svizzera, nata nel 1971 per iniziativa dell’economista ed accademico Klaus Schwab. Leggerò con attenzione ma intanto cosa ci racconta questo documento?
“Oggi l’Industria italiana si trova sulla soglia di un cambiamento profondo che, come ha definito Klaus Schwab, “assume i caratteri della quarta rivoluzione industriale”, ma con elementi distintivi che si presentano per la prima volta nella storia dell’umanità”.
Vediamo allora quali:
- le rivoluzioni industriali precedenti hanno sempre avuto una velocità crescente e lineare; la rivoluzione industriale 4.0 è caratterizzata da una velocità pervasiva ed esponenziale dovuta alla frenetica generazione di nuove tecnologie, spesso ideate come integrazione e/o sviluppo delle tecnologie medesime;
- nelle precedenti epoche, le rivoluzioni industriali erano caratterizzate da singole invenzioni (macchina a vapore; energia elettrica/motore a scoppio; computer); questa quarta rivoluzione nasce dalla convergenza di diverse tecnologie (applicazioni digitali, studi sui materiali, automazione e intelligenza artificiale, genetica animale e vegetale, reti di comunicazione e computing);
- la quarta rivoluzione passerà alla storia come “sistemica” ovvero riguarderà la trasformazione di interi Sistemi omogenei: Paesi, Settori industriali, Mercati, Imprese.
Straordinari saranno i cambi di paradigma (rapporto scienza-tecnologie, modelli di business, organizzazione del lavoro ecc.), anche rispetto allo sviluppo intensivo con cui siamo cresciuti durante il secolo scorso. Una grande opportunità per tutti, in particolare per l’Italia che può cogliere l’occasione per il rilancio del made in Italy a partire dai vantaggi storici che il nostro Paese segna in ingegnosità, creatività, adattabilità.
Passeremo dalla mass production alla mass customization: produzione flessibile e brevi tempi di esecuzione permetteranno l’emergere di alcune novità:
A – dalla ricerca di economie di scala a unità localizzate e flessibili: da grandi fabbriche in paesi a basso costo a fabbriche intelligenti dotate di strumenti all’avanguardia che permetteranno di produrre ovunque a un costo competitivo;
B – da una produzione industriale fondata sulla previsione (e stoccaggio) a una produzione dinamica, su richiesta; con organizzazione del lavoro estremamente flessibile (nessun piano di vendita ma produzione modulata sugli ordini d’acquisto sempre più riferiti a funzioni e usi specifici); con crescente specializzazione del prodotto;
C – uso crescente del capitale intellettuale nella produzione.
Leggo su Internet (fonte: Roland Berger) questo commento che mi pare convincente: “Da una recente indagine, in Italia solo una minima parte delle imprese ritiene di essere già pronta (campione di 250 aziende) a differenza delle aziende tedesche che – soprattutto per il piano del governo tedesco varato nel 2012 – risultano decisamente più mature (…) e mentre per le imprese tedesche l’Industria 4.0 è vista come strumento per ridurre i costi, in italia è vista come strumento trasversale (…) non punta a fabbriche o prodotti ma lascia libertà di utilizzo delle tecnologie”.
Da una ricerca dell’osservatorio Industria 4.0 del Politecnico di Milano: “il quadro dell’Industry 4.0 in Italia appare sostanzialmente positivo: quasi un terzo delle imprese ha già avviato tre o più progetti utilizzando tecnologie digitali innovative come l’Internet of Things”.
E ancora su Internet, non dichiarata la fonte, ma interessante la riflessione: “Un nodo fondamentale per interpretare gli scenari della nuova industria è focalizzare l’attenzione sul ruolo dell’uomo all’interno di quella che viene definita come la quarta rivoluzione industriale. La vera sfida, e la vera rivoluzione, consiste nel porre al centro di questi processi il coinvolgimento delle persone, la loro creatività e la formazione di nuove competenze. Da anni la Toyota promuove l’integrazione fra “l’arte di fare prodotti” (monozukuri) e “l’internet delle cose” attraverso “l’arte di fare persone” (hitozukuri) quale elemento alla base per una innovativa rivoluzione industriale. Secondo l’insegnamento del sensei Satoshi Kuroiwa, uno dei massimi esperti di TPS (Toyota Production System) e di Factory Automation, per affrontare con successo la quarta rivoluzione industriale è indispensabile introdurre processi People Centric con il supporto delle tecnologie abilitanti, a partire dalla AI (Intelligenza Artificiale); sviluppare una nuova mentalità all’interno delle aziende – per rendere semplici, stabili ed intuibili i processi che portano ai nuovi prodotti e a servizi intelligenti -, formare nuovo capitale umano e solamente dopo investire in nuovi strumenti. La nuova fabbrica digitale sarà caratterizzata da un flusso di comunicazione in tempo reale, dalla capacità autodiagnostica e dal controllo a distanza della produzione, dalla personalizzazione dei prodotti in funzione della domanda e dalla simulazione della produzione in ambiente virtuale. In questo scenario iper-tecnologico all’uomo resta il compito essenziale di governare le tecnologie, progettare i sistemi, controllare e migliorare i processi produttivi e di conseguenza anche i prodotti e i servizi. Soprattutto di permeare l’azienda di quella creatività che nessuna macchina può dare. L’Industria 4.0 può proiettarci in una vera rivoluzione a patto di porre le macchine al servizio delle persone e non viceversa. È l’insegnamento della filosofia Toyota, sintetizzato in Making things is making people.
Possibili riflessi nelle Public policy
Questa analisi del World Economic Forum mi suggerisce, tra le righe, oltre a una lettura di quanto di profondo sta accadendo in occidente e in Italia, tutta l’esigenza di politiche pubbliche adeguate all’accompagnamento di questa rivoluzione industriale, che sarà anche rivoluzione di costumi e di qualità della vita.
Quando parlo di “politiche” intendo esattamente un ventaglio di politiche che diano razionalità al processo, e sicuramente la politica che più richiama la sensibilità diffusa è quella relativa agli effetti occupazionali. Un processo di crescita, di civiltà, di profondi cambiamenti degli stili e della qualità della vita non può avvenire contro il diritto al lavoro, con una riduzione della base occupazionale, contro la dignità dell’uomo. Ma i segnali di questi rischi ci sono tutti. Un’economia che sprigionasse la sua creatività in chiave liberistica, senza attenzione all’interesse pubblico, alla società, alle condizioni di vita di chi lavora segnerebbe un’evoluzione scientifica e tecnologica in parallelo a un’involuzione sociale. Questa tendenza sarebbe inaccettabile, e l’impegno dei governi sarà fondamentale per coniugare l’evoluzione dei due fattori, quello scientifico e tecnologico, da una parte, e quello sociale, dall’altro.
Le politiche a sostegno della quarta rivoluzione industriale devono perseguire la crescita della base occupazionale, non la decrescita; devono sostenere una delle caratteristiche portanti, anche se implicite, della rivoluzione 4.0: lasciare all’uomo “il compito essenziale di governare le tecnologie, progettare i sistemi, controllare e migliorare i processi produttivi e di conseguenza anche i prodotti e i servizi. Soprattutto di permeare l’azienda di quella creatività che nessuna macchina può dare”.
La Germania, forte di un sistema produttivo e di un mercato del lavoro più razionali del nostro, ha trattato le “politiche pubbliche” in chiave riduzione dei costi d’impresa. L’Italia con gli interventi di “Impresa 4.0” ideati dal Ministro Calenda ha dato impulso alla crescita in una chiave strategica più interessante perché trasversale.
Entrambi i Paesi, con rischi diversi nell’immediato dovuti a una diversa base di partenza complessiva dell’economia e del debito pubblico, dovranno però fare i conti con l’allarme occupazione. L’automazione continua a sostituire posti di lavoro e quindi a cancellarli; la rapida obsolescenza dei prodotti e delle tecnologie modifica molto rapidamente la formazione degli addetti; il sistema di formazione in Italia non è sufficientemente forte; gli addetti alla produzione over 50 rischiano l’emarginazione e la mobilità in misura superiore ai giovani per ovvii motivi di cultura generazionale e di crescente allontanamento dalla formazione scolastica; il collegamento scuola-lavoro resta debole; la tendenza alle delocalizzazioni aziendali è ridimensionata da qualche anno ma non superata.
E allora le domande sulle quali aprire una discussione sono le seguenti:
- possono le politiche pubbliche (infrastrutturali, fiscali, contributive ecc.) favorire la rivoluzione industriale 4.0 contrattando con il sistema imprenditoriale contropartite che abbiano a cuore l’equilibrio del sistema-paese, imponendo scelte a tutela dell’occupazione?
- è possibile imporre alle Imprese, come contropartita agli aiuti pubblici, l’obbligatorietà di reinvestimento di quote importanti di utile certificato d’esercizio; imporre un freno alle delocalizzazioni, in fase di crescita del prodotto; imporre un’attenzione e collaborazione fattiva ai processi di formazione e mobilità del personale?
Credo che tutto questo si possa fare irrobustendo il sistema Italia e rispondendo positivamente, con politiche pubbliche attive e coordinate con le forze sociali, rappresentative delle imprese e dei lavoratori, a un elemento costituente, discriminante e di coesione della rivoluzione 4.0: l’imprescindibilità della creatività d’impresa, dell’investimento sul fattore umano e sulla cultura d’azienda e dunque della stabilità del posto di lavoro.
L’Impresa forte della rivoluzione industriale 4.0 sarà fondata su questi parametri e garantirà stabilità della prestazione lavorativa, senso di appartenenza, formazione e innovazione continua.
Maurizio Merlo
è avvocato, networker, saggista